Aleksandr Ragozhkin, regista russo dai piedi forti, dirige un film implacabilmente freddo, ritmicamente ripetitivo, efficace, sordo e inappellabile. Coraggiosamente in bilico tra i gangli cerebrali di Srubov, capo della Cheka locale, e la cantina-mattatoio del quartier generale, il film versa moncherini di sangue e rivoluzione nella cloaca insensata della storia. Presentato nella sezione Un certain regard al Cannes film festival del 1992, The Chekist è un film clamorosamente diverso dalle epopee dense di lirismo che solitamente ci propinano gli esperti del genere. Esteticamente urticante, puntella lo schermo per due ore come un martello che vi si pianta in viso al suono del tamburo. Splendida la coreografia di personaggi che arrancano intorno all'algido Srubov: dalla signora delle pulizie, grassa, rossa e violacea, alla masnada di gerarchi e piccoli ufficiali che si muovono -con una limpida assuefazione- nella temibile, vaporosa terra dagli inverni di ghiaccio. Abbiamo di fronte una specie di escatologia tellurica e pagana, in cui si opera costantemente un'inversione delle gerarchie sociali, sono i figli aristocratici di una Russia cinica, gloriosa e pesante a stare in piedi, nudi e bagnati, d'avanti al cecchino. Un uomo, molti uomini, che sparano colpi di fucile con l'aria annoiata di chi vuol finire una insipida giornata di lavoro. La ripetizione è l'analgesico della psiche. Alla morte ci si abitua, eccome, perché "la rivoluzione non ha niente a che vedere con la camicia bianca di Karl Marx".
Eppure una rivoluzione dovrebbe sempre portare a un'evoluzione.
Pellicola di spessore e -come tutte le cose di valore- facile da masticare e impossibile da digerire.
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