mercoledì 7 giugno 2023

KIM KI DUCK


Roma 4 giugno

Lasciatevelo dire: è quasi impossibile trovare di meglio che aprire una casa di Kim ki duk. Come un'orchestra che esegua alla perfezione i suoi ricchi accordi, in una voragine di spartiti muti, i suoni, le assenze e i colori si insinuano nel letto dei nostri pensieri. Resta da capire perché questa musica per sordi riesca a penetrare in un luogo così intimo dell'esistenza, e in una maniera così furtiva da restare inosservata, finché ti accorgi che sono giorni che ci stai pensando e ancora non possiedi le chiavi del film. Decine di rivoli d'acqua, simili a un groviglio di vipere luccicanti, si annidano facilmente nel legno macero di una casa acquatica, e allora devi capire che l'intero sistema del racconto, che noi tutti siamo abituati a decifrare in tre o quattro movimenti, qui non è che un paesaggio esotico. Le lettere non spiegano nulla, mai. Esse sono completamente mute. L'immagine non è più la rappresentazione visiva della parola, non ne vuol sapere di essere al suo servizio, tantomeno di risultare solo una specie di imbellettamento. Archiviata la lingua, che è artificiale, ci resta il linguaggio, che è naturale. Qui non siamo di fronte al quadro rosso vibrante di un perfetto colorista, e nemmeno abbiamo sotto gli occhi l'oscurità sanguigna di un Goya, ma una tela mobile, attraversata da simboli, con un'alterazione vitrea, con quel genere di movimento che mancherà sempre a un quadro di Raffaello. Il quadro di Kim ki Duk si trova in un luogo tanto intimo dei nostri pensieri, semplicemente perché è pervaso da un profondo intimismo, non da una qualsiasi "maniera" cinematografica. Siamo, insomma, nel sistema cerebrale di un uomo dotato di talento. Quest'uomo si serve di simboli, non astratti richiami, ma significati coerenti, e tutti vibranti in allitterazioni poetiche. 
Veniamo al primo di essi: la casa. Un giovane uomo ci guarda silenzioso, entra furtivamente in una serie di abitazioni, nessuna di queste è la sua. Pensiamo bene, la prima cosa che fa é accendere la segreteria telefonica: dà un sonoro all'ambiente, una voce propria. Poi scatta delle foto accanto alle immagini degli uomini e delle donne che abitano la casa. Ora abbiamo dei volti. In rapida successione lava gli abiti che trova sgualciti o poggiati distrattamente da qualche parte, poi "ripara" le cose rotte. Ecco che abbiamo un corpo che indossa degli abiti, e ha persino dei difetti. La casa è una Persona, ha addirittura un carattere. Nella prima in cui entriamo c'è un bambino che spara con la sua pistola giocattolo ai genitori che litigano; la casa del pugile è -invece- segnata da una specie di spirito brutale: la prima immagine che ci si fa incontro è quella di uomo coi guantoni da box, che spinge il gancio verso lo spettatore con occhi diffidenti e carichi di sudore. E ancora il fotografo: una casa grigia, anch'essa in bianco e nero, come le foto e i nudi di estranei appesi alle sue pareti. Poi, ancora: il vecchio, disteso su un lato, col cranio rosso, che colora come una pittura anche il pavimento, intorno solo pochi oggetti, pareti nude e colori muti, una solitudine fatta di rughe. Il luogo in cui i due si scambiano il primo bacio è, al contrario, una casa ordinata, in cui abitano un uomo e una donna che sembra non facciano altro che prendersi cura dei fiori nell'acqua e dei bonsai, come a dire che quella stessa dedizione la dedicano l'uno all'altra. Qui l'anafora già suggerisce che si è in poesia. E' una gran brutta cosa vivere in un epoca in cui si pensa che il genio, più o meno, sia una specie di esaltazione onirica, in cui non esistano intimi legami densi di significato, ma solo incomprensibili effetti speciali. Se è vero che il più puro furore artistico viene giù come il rigurgito dell'onda e brulica come un cratere, lo è altrettanto che chi è colto da uno slancio simile si porta dietro i suoi soggetti per ore, giorni, ovunque. E' così che Tae-Suk è entrato nella "sua" casa vuota. 

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