mercoledì 7 giugno 2023

Appunti di viaggio





 

Greenaway

Moderno, morboso, molteplice e anti-erotico:
Il problema, quando guardi un film di Peter Greenaway, è che trovi sempre una marea di quinte, e ti ci perdi. Devi quasi sicuramente misurarti con l'alternanza di due tempi, il prestissimo della provocazione e la lentezza barocca della composizione. Questo ritmo per contraccolpi, che in altri è praticamente assente, in lui è quasi un elemento congenito. Le sue pellicole procedono per ferite di punta: regolari, innumerevoli, scioccanti e grottesche, ma sempre arginate -o esibite- in architetture plastiche, ideali, che seducono o respingono come una tempesta magnetica. Greenaway è un esemplare d'uomo notoriamente antipatico, ma bisogna riconoscere che le sue interviste hanno un gusto diverso dalle solite frattaglie che ci lasciano ingurgitare qua e là. Prendiamo questa dichiarazione, per esempio:
-"Credo ci sia ancora un enorme analfabetismo visivo. Nel linguaggio dell'immagine non c'è la stessa complessità del linguaggio testuale. [...] Non abbiamo visto il vero cinema, ma solo 105 anni di testo illustrato".  
Di qui vengono: il predominio assoluto della composizione estetica, la cloaca luminosa di quei reticoli di immagini così carichi di funzioni simboliche e l'intersezione di piani lontani e non sequitur nella trama, che non può più vantarsi di veicolare il significato del film. Questo non implica affatto che la parola, in un lavoro del gallese, sia qualcosa di fiacco. Il suo cinema è pieno di motti grotteschi, bisticci linguistici e stucchevoli calembour, ma la sua testa è decisamente tagliata per servirsi di codici: numerici, alfabetici, coloristici. Visti nella giusta prospettiva, i suoi film risultano particolarmente coerenti, ineccepibili, anche in quegli eventi che l'ortodossia della trama chiamerebbe pure stramberie. Veniamo al punto, prendiamo il discorso per le piume, A zed and two noughts inizia così:
Un crash automobilistico sul Viale dei Cigni, a causa di un cigno, che urta un'auto bianca, guidata da una certa Alba Bewick, che indossa un abito bianco con di piume di cigno (e scusate se ho scritto troppe volte la parola cigno!). Muoiono nell'incidente due donne, entrambe mogli dei fratelli Deuce, due etnologi. Ad Alba verrà amputata una gamba. Oliver Deuce raccoglie pezzi di vetro sul luogo dell'incidente, in una scena apparentemente secondaria. Notiamo -però- che l' insegna luminosa che campeggia alle sue spalle comincia a spegnersi, prima la "z", poi la "o" che sta nel centro: eccoci rivelato il primo Zero, in un momento che segna -anche- la fine del prologo. Di qui in poi inizierà un movimento narrativo perfettamente simmetrico, matematico, scandito dalle otto parti  di un documentario sull'evoluzionismo darwiniano, nel tentativo di comprendere come "la vita si origini, apparentemente, dal nulla" e come possa iniziare a marcire, ad un tratto, sul sedile posteriore di un'auto. Il discorso ha origine più o meno da queste battute:
-"Non riesco a sopportare l'idea che stia marcendo"
-"Come ha inizio il processo?"
-"Per prima cosa: i batteri attaccano le pareti intestinali"
-"Che genere di batteri?"
-"I bisocosis populi. Pare che ci scambiamo 130.000 bisocosis ad ogni contatto con la lingua umana. In un bacio molto intimo salgono a 230.000. I primi entrarono in contatto all'alba della creazione, quando Adamo baciò Eva"
-"E se fosse stata Eva a baciare Adamo?"
-"E' improbabile; i primi 100.000 li aveva sprecati mordendo la mela".
Una mela, appunto, Apple, in inglese: sarà il primo esperimento di decomposizione inaugurato dalla "brutta copia dell'altro Deuce". Segue: la putrefazione di alcuni gamberetti, due pesci, un coccodrillo, un cigno, un cane e una zebra, in inglese Zed. Gli estremi del codice alfabetico rinviano per analogia ai due colori che si trovano all'inizio e alla fine della scala cromatica: il bianco e il nero. L'unione di tutti i colori e la loro totale assenza. Non a caso, vengono  citati  fin dalla prima scena, prima più timidamente: un dalmata, una mucca alle spalle di Olivier, poi -morbosamente- con la zebra. Penso alle mutandine di Catherina Bolnes, alle scarpe di Venere di Milo, al suo taileur nero accanto all'abito lindo di Arc-du-Ciel.
Persino un pavimento, in un film di Greenaway, deve poter veicolare un certo valore simbolico: 
Meno evidente, forse, ma più significativo, mi è sembrato l'uso dei colori nei fotogrammi in cui è presente Alba Bewick, i cui tratti rinviano -a dispetto degli eventi- a una vaga idea di fecondità: i folti capelli rossi, il seno enorme e sempre scoperto, il parto dei gemelli Deuce, infine. Alba è quasi sempre vestita e circondata di bianco: in ospedale il decoro del letto forma addirittura un'aureola intorno alla sua testa. Di solito è sorretta da cuscini o dai due fratelli, ma nei momenti post-operatori è sistematicamente in orizzontale e i suoi amanti segnalano la loro presenza soltanto a distanza, rigidamente vestiti. Solitudine-Assenza-Abbandono.
Al contrario, negli amplessi l'atmosfera nella stanza è decisamente meno asettica, Alba è in verticale, il colore dominante è il rosso, insieme -naturalmente- al colore della carne: 
Fino a questo momento Oliver e Oswald Deuce sembrano piuttosto dissimili nell'aspetto: le loro case, gli abiti, i fiori che lasciano sulla scena del crash, le loro pettinature, tutto rinvia a una specie di gusto antitetico. Eppure, di qui in poi realizzano di essere "complementari", esattamente come le gambe amputate di Alba. Diventeranno sempre più simili, fino a quando non sarà più possibile distinguerli. 
"Regolarità e simmetria sono bisogni primordiali dello spirito umano, al pari della complicazione e dell'armonia". Forse è dalla solitudine della a-simmetria che nasce il nostro bisogno d'amare, di dimenticare la nostra instabilità nel corpo di qualcun altro. 
E' tempo dell'ultima tappa evolutiva di Darwin, l'ottava. Nell' evoluzionismo della morte -messo in scena dai due gemelli- manca soltanto il vertice della catena evolutiva: l'uomo. Perciò non stupirà il suicidio -sincopato e serenissimo- dei nostro due Zeri. Il film inizia con la morte di due donne e finisce con la morte dei loro mariti. L'alfabeto, la scala cromatica, le otto tappe del ciclo di Darwin: ogni circolo è chiuso. Più logico di così...si muore. 
 E se siete arrivati alla fine di questo appallantissimo post, il punto è questo: marcirai, ti consumerai, sei destinato alla putrefazione.
Che horreur!
Citazioni memorabili

-"I pesci hanno anticipato tutto quello che è venuto dopo. Non capisco perché l'evoluzione sia andata avanti, poteva fermarsi qui"

-"Allora, la bara, lunga o corta?"

[Quasi tutte le citazioni di Peter Greenaway, invece, sono tratte da Cinemasema, blog (bellissimo) linkato qui a destra.]


Incursioni di viaggio






 

Dogtooth

L'ignoranza ha partorito la credulità e dalla credulità è nata la menzogna:
Yorgos Lanthimos, classe 1973, ha girato un film spudoratamente grande. Restando fedele allo scarto di rotta segnalato dalle preferenze parolistiche dell'ultimo periodo, dovrei tentare di non prendere il discorso  da lontano. Eppure, l' infantile, eiaculante ossessione per la più grande soddisfazione cinefila dell'anno mi impedisce di uscire da una visione d' insieme quantomeno opaca. Come spesso succede devo partire da una domanda: 
-Tutti desiderano possedere la verità, ma quanti ci riescono veramente? 
Dogtooth è certamente la mise en image di un concetto, ma -nonostante l'evidente privilegio concesso all' approccio visivo- la ricerca emotiva è la grande exclue del film. Devi cercare bene nella scatola umanoide e superare la periferica profondità dell' immaginazione.  Devi trovare, cioè, una specie di ironia razionale per venir fuori dall' apatico, luminoso congegno messo in piedi dalla macchina filmica. Per questo motivo, preferisco per Dogtooth la definizione di Allegoria a quella di metafora. 
E' quasi certamente estate: in una casa in campagna, con giardino, siepi e piscina, un uomo senza nome ha costruito il suo regno personale. Vive con sua moglie e i tre figli: due donne bionde, vestite spesso con semplice biancheria di cotone e un maschio, che forse è il favorito, ma che appare il meno convincente dei tre. Esiste una naturale inclinazione dell' uomo a rendersi cieco, ma lo spettacolo che ci viene incontro dal primo fotogramma di Dogtooth è quello di una (De)formazione sartoriale dell' essere. I tre bambini sono stati cresciuti nell' apoteosi del loro Babas ("papà", detto con un suono un po' ridicolo): una sorta di demiurgo, di pedagogo e giudice insieme. 
E' certamente meno padre che tiranno. Ha insegnato loro una Lingua del tutto deformata in cui -per dirne qualcuna- "tastiera" sta per "vagina" e "mare" per "confortevole sedia". Ha fabbricato intorno a sé un arsenale di poteri, devozioni ed obbedienze che gli permette di governare agevolmente il suo micro-ragnoso regime. 
La regia di Lanthimos è l'esaltazione naturale di questo status: luminosa e claustrofobica insieme, con una predilezione per le immagini frontali (anche di nudo), che vince largamente la tradizionale contraddizione Violenza/Umorismo. Rinunciando al più facile registro drammatico, il regista ha trovato uno stile gelido che forse è l' elemento che rende il suo film così unico. Liberandoci dalle lacrime, dai ghirigori emotivi e da tutto il laboratorio sentimentale del dramma, non veniamo "forzati" verso nessuna interpretazione della pellicola. Prendiamo una scena qualsiasi:

Un esterno piacevole, pulito, da ricca abitazione di famiglia benestante, che -tuttavia- stride coi concetti innegabilmente sottesi a tutta la sequenza: Obbedienza/Sereno Servilismo/Devozione. Manca, in breve, quella possibilità di fare e non fare che chiamiamo comunemente libertà. Quest' assenza d' identità, la violata occasione di definire se stessi, viene saggiamente arginata dal timore della Punizione. Eccone un esempio:
A parte la meravigliosa scelta estetica del bianco -un colore così asettico e sterile- questa scena rinvia direttamente ai più oscuri cartigli della criminologia medievale,  in cui si ordinava di punire il criminale al cospetto del popolo e si confermava l' esistenza di un' Autorità in grado di determinarne il destino. Nello stesso tempo,  indugia anche su una parola tristemente più vicina a noi, non solo cronologicamente, che è quella di Regime.  
J. Goebbels, un signore che di potere ne capiva qualcosa, un giorno esordì con questa frase da carceriere di gran razza: - "La propaganda è un' arte, non importa se essa racconti o meno la verità". 
Da un punto di vista più ovvio,  Kynodonthas è un moderno, nerissimo J'accuse! contro le insidie della propaganda, intesa come architettura di qualsiasi Dittatura, poiché in grado -da sola- di alterare significativamente la libertas agendi dei popoli, deformando la loro visione della realtà. Così, succede che il patriarca della famiglia riesca a far credere che la loro pace sia minacciata da un mostro tremendo, che si chiama Gatto, e che per combatterlo tutti loro debbano abbaiare come cani:
(Questo è un momento che io trovo superlativo nel film, perché è la condensazione di almeno tre campi semantici: la deiezione dell'uomo nel mondo; l'ancestrale, primitiva chiusura dei popoli rispetto alle diversità (intesa come differenza di razza, ceto, stato, educazione, etc); La contaminazione epidemica che ha fatto barricare il mondo occidentale in una cortina di pregiudizi  nei confronti del mondo orientale (cfr. Il "nemico del Terrorismo", in questo caso rappresentato dal Gatto) . 
Quando dico che questo film è davvero grande, voglio dire che Lanthimos non ha lasciato proprio niente al caso: Nella scarna sceneggiatura di Dogtooth fondono insieme Pedagogia e Demagogia. L'uomo viene precipitato nella sua dimensione di automa, di anonimo vero, nella misura in cui viene controllato persino quando ha a che fare con la terra, coi denti, con la saliva e col piacere. 
Il sesso va eseguito come un'operazione chirurgica. Il maschio (anche lui non ha nome) prende la donna solo nei modi che gli sono concessi (quando lei chiede di "spingersi più in là", si sente ripetere, con la voce di un flebotomo: "non posso"  

Ogni momento dell' accoppiamento procede per automatismi; la stanza è invasa dal solito bianco, sulla scrivania (da qui non si vede) c'è un ritratto del padre/tiranno. Non c'è niente di personale nell'arredamento e la luce alle loro spalle ricorda ancora una volta l'idea di sala operatoria, di disinfezione e -in senso lato- di sterilità. E' un misero effetto placebo per il maschio, per evitare eventuali sovversioni. Eppure, i due coniugi ci offrono una scena di nudo che funziona per contrapposizione.
 Come spesso, succede il "dietro le quinte" è più interessante del palcoscenico:
Un notturno, un film porno, la libertà di dire e toccare. 
Ci insegnano da sempre ad avere un chimerico terrore delle potenze visibili e invisibili. Eppure, anche da malati immaginari continuiamo ad avere dentro quella corsa disperata verso la vita che preme sullo sterno nottetempo. Siamo animali crudi, nebulosi, vittoriosi e permalosi. Le snervanti provocazioni del film sembrano suggerirci che gli esseri umani sono creature addomesticabili, spesso cieche, ma ancora sensibili al veleno  vitale della natura, della fame e del godimento, che assomigliano a rischiose infiltrazioni nell'ordine civile delle cose. Bastano pochi indizi. Una parola celata male. La scoperta di un nuovo linguaggio umano. 
Non riusciamo quasi mai a possedere la verità, ma alcuni di noi possono almeno toccarla(Chiudo con un bel passaggio del film: le due ragazze decidono di chiamarsi "Bruce" e "Spinadorsale". Il nome, anche se qui è ridicolo, è la prima forma di riconoscimento che l' 'individuo offre di sé. )
Pensavo: 
Ma siamo così lontani dal micragnoso regno di Dogtooth?


In fin dei conti crediamo ancora che un profeta abbia soggiornato per tre giorni e tre notti nel ventre di un pesce e che si sia trovato così bene da scriverci anche un cantico. 
Buoni pensieri.

Michela

Incursioni





 

Ken Russell

E' il 1974 e il grasso, pazzo, mastodontico Ken Russell arriva a Cannes con Mahler, film che idealmente precede Listzomania e accompagna The music lovers: biografie -alquanto figurative, diciamolo- dei grandi Listz e Cajkosvskij. Il barocchissimo Russell dirige con un gusto più pesante del solito, a cominciare dalla scelta della gamma cromatica, cioè dalle numerose variazioni di grigio e di viola e dall'odore del colore in generale, che mi ricorda l'aroma un po' appassito dei cassetti in naftalina. Si dirà come al solito che il regista è sovra-esposto: bene, è un elemento che da Ken Russell non estrarrete neanche con il forcipe. Regista torreggiante nell'underground inglese, è entrato a più riprese nelle scatole fuori moda del genio. E se non ne è uscito pazzo è solo perché è un tipo abituato a raschiare il fondo. Al suo Mahler, un pallido ebreo di tedeschissima lingua, mancano -ahimè- numerosi talenti. Ma le nevrosi ossessive del grande compositore si schiantano al fondo dei nostri nervi come robusti filamenti di solitudine. La densità (timbrica, iconoclasta) delle sezioni surrealiste e freudiane (ma solo per caricatura) ci rende sordi alla monotonia del ritmo filmico e -meglio ancora- alla tremenda carenza di una partitura narrativa sempre troppo docile, che tenta di fare acrobazie sulla scena stinta di una carrozza in movimento. Perché dove Ken Russell può essere veramente se stesso non c'è un solo difetto, statene certi. Il gusto dell'idolo, quasi pagano, sibarita, incide sulla pellicola un culto delle immagini che -al solito- è in pompa magna. E' l'uso occulto, psicologico della figura e del colore che il regista controlla senza freni; è la luce, che sembra irradiarsi direttamente dalle cose e dalle persone; è la sovrapposizione di metafore e cronache; è il gusto privilegiato, spassoso per la midriasi dell'anima; è il suo essere più umano dei suoi pensieri a renderlo quel che è: un ultramoderno John Falstaff. E' più morboso certo, più perverso, ma non meno grottesco. E come lui, forse, ha capito che il limite -in ogni sistema linguistico- è nella vulnerabilità dell'altro
1975: Psico-antologia d'avanguardia. 

KIM KI DUCK


Roma 4 giugno

Lasciatevelo dire: è quasi impossibile trovare di meglio che aprire una casa di Kim ki duk. Come un'orchestra che esegua alla perfezione i suoi ricchi accordi, in una voragine di spartiti muti, i suoni, le assenze e i colori si insinuano nel letto dei nostri pensieri. Resta da capire perché questa musica per sordi riesca a penetrare in un luogo così intimo dell'esistenza, e in una maniera così furtiva da restare inosservata, finché ti accorgi che sono giorni che ci stai pensando e ancora non possiedi le chiavi del film. Decine di rivoli d'acqua, simili a un groviglio di vipere luccicanti, si annidano facilmente nel legno macero di una casa acquatica, e allora devi capire che l'intero sistema del racconto, che noi tutti siamo abituati a decifrare in tre o quattro movimenti, qui non è che un paesaggio esotico. Le lettere non spiegano nulla, mai. Esse sono completamente mute. L'immagine non è più la rappresentazione visiva della parola, non ne vuol sapere di essere al suo servizio, tantomeno di risultare solo una specie di imbellettamento. Archiviata la lingua, che è artificiale, ci resta il linguaggio, che è naturale. Qui non siamo di fronte al quadro rosso vibrante di un perfetto colorista, e nemmeno abbiamo sotto gli occhi l'oscurità sanguigna di un Goya, ma una tela mobile, attraversata da simboli, con un'alterazione vitrea, con quel genere di movimento che mancherà sempre a un quadro di Raffaello. Il quadro di Kim ki Duk si trova in un luogo tanto intimo dei nostri pensieri, semplicemente perché è pervaso da un profondo intimismo, non da una qualsiasi "maniera" cinematografica. Siamo, insomma, nel sistema cerebrale di un uomo dotato di talento. Quest'uomo si serve di simboli, non astratti richiami, ma significati coerenti, e tutti vibranti in allitterazioni poetiche. 
Veniamo al primo di essi: la casa. Un giovane uomo ci guarda silenzioso, entra furtivamente in una serie di abitazioni, nessuna di queste è la sua. Pensiamo bene, la prima cosa che fa é accendere la segreteria telefonica: dà un sonoro all'ambiente, una voce propria. Poi scatta delle foto accanto alle immagini degli uomini e delle donne che abitano la casa. Ora abbiamo dei volti. In rapida successione lava gli abiti che trova sgualciti o poggiati distrattamente da qualche parte, poi "ripara" le cose rotte. Ecco che abbiamo un corpo che indossa degli abiti, e ha persino dei difetti. La casa è una Persona, ha addirittura un carattere. Nella prima in cui entriamo c'è un bambino che spara con la sua pistola giocattolo ai genitori che litigano; la casa del pugile è -invece- segnata da una specie di spirito brutale: la prima immagine che ci si fa incontro è quella di uomo coi guantoni da box, che spinge il gancio verso lo spettatore con occhi diffidenti e carichi di sudore. E ancora il fotografo: una casa grigia, anch'essa in bianco e nero, come le foto e i nudi di estranei appesi alle sue pareti. Poi, ancora: il vecchio, disteso su un lato, col cranio rosso, che colora come una pittura anche il pavimento, intorno solo pochi oggetti, pareti nude e colori muti, una solitudine fatta di rughe. Il luogo in cui i due si scambiano il primo bacio è, al contrario, una casa ordinata, in cui abitano un uomo e una donna che sembra non facciano altro che prendersi cura dei fiori nell'acqua e dei bonsai, come a dire che quella stessa dedizione la dedicano l'uno all'altra. Qui l'anafora già suggerisce che si è in poesia. E' una gran brutta cosa vivere in un epoca in cui si pensa che il genio, più o meno, sia una specie di esaltazione onirica, in cui non esistano intimi legami densi di significato, ma solo incomprensibili effetti speciali. Se è vero che il più puro furore artistico viene giù come il rigurgito dell'onda e brulica come un cratere, lo è altrettanto che chi è colto da uno slancio simile si porta dietro i suoi soggetti per ore, giorni, ovunque. E' così che Tae-Suk è entrato nella "sua" casa vuota. 

Heidegger riflette su un soggetto di Van Gogh


Roma 3 giugno 2023


[...]Scegliamo -ad esempio- un quadro di van Gogh. Che cosa c'è da vedere in esso? [...] La contadina calza le scarpe nel 

campo. Solo qui esse sono ciò che sono. [...]. Lei è in piedi e cammina con esse. Ecco a cosa le scarpe servono 

realmente. [...] Nel quadro di van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio

 di scarpe da contadino non c'è nulla di cui potrebbero far parte, c'è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei

 solchi o dei viottoli non vi sono appiccicati, denunciandone almeno l'impiego. Un paio di scarpe da contadino e 

null'altro. Tuttavia ... nell'orifizio oscuro dell'interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel

 massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del 

campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la 

solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito 

dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la

 sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della

 prossimità alla morte. Questo mezzo appartiene alla terra e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo

 appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso [...] ». E' il quadro che ha parlato, che ci ha

 fatto conoscere cosa le scarpe sono in verità...Noi diaciamo spesso questa parola, e non riflettiamo a sufficienza sul 

suo significato.