mercoledì 19 agosto 2009

PERSONA (1966) - di Ingmar Bergman - ***** (Soliloquio di Michela)

Il primo ricordo che ho di Bergman è una di quelle immagini che entrano facilmente nella memoria collettiva: un uomo ossuto, con un grosso porro all'altezza della guancia, le ciglia folte, la mascella forte, tutta serrata in quella sua smorfia intelligente e -sulla testa- un piccolo basco portato di lato. Credo che ancora oggi quella foto sia molto popolare e in grado di esercitare un certo fascino sulla gente, quel tipo di enigma che ti provocano tutte le persone che si trascinano dietro una grande fama, una credibilità assoluta, perché si esprimono attraverso una grammatica sentimentale tutta equivocabile. Ho letto da qualche parte che lavorava sempre da solo, perché nel silenzio -"dove più si afferma l'essere"- trovava il modo, testardo e rarefatto insieme, di entrare agevolmente in quelle che i poeti chiamano le stanze dell'anima. Elisabeth e Alma, faccio fatica a ricordare i nomi, persi come sono negli ostinati silenzi dell'una e nelle loquaci profusioni dell'altra. Sarà che in questa chirurgia dell'identità, in questa paralisi emotiva in un cielo di donna, il nome non è più sufficiente, non interessa, non basta per identificare una "Persona": Bergman scelse esplicitamente la parola latina nella sua duplice accezione di attore e maschera. Interprete ed interpretazione. Un volto che sta dentro, che Io solo riconosco senza parole; un secondo volto che tiro fuori di me, incontrando gli altri, ma solo attraverso il linguaggio, che -se non è muto- è già artificiale, quindi equivoco, o perlomeno equivocabile; un ultimo volto -infine- che solo a me è precluso, esposto allo sguardo diretto degli altri, mentre a me non resta che osservarlo allo Specchio. Ci avete mai pensato al fatto che nessuno potrà -realmente- guardarsi in faccia? Ogni fotogramma in questo film si presenta come riflesso, appaiato ad un altro: la stessa scena è ripresa da due, tre angolazioni almeno; un momento sei Alma, e allora il profilo magnifico di Elisabeth è sempre lì, a pieno schermo, con i suoi occhi sicuri, silenziosi, gonfi di mistero. Il silenzio è da sempre un'arma incredibile per aprire le bocche degli altri, e i loro cuori. Dà l'impressione di essere ascoltati. E' per questo che quando l'ossessione interpretativa si accanisce sull' infermiera, mostrandoci ogni suo segreto attraverso gli occhi di Elisabeth, ci sembra così in accordo con le nostre intuizioni da non lasciare quasi mai fughe interpretative. Azione dominante e reazione dominata, queste due donne ricordano Delfina e Ippolita di Baudelaire, ma senza sesso, senza il lato drammatico della passione. L'amore omosessuale ci viene buttato sotto gli occhi per tutta la durata del film, ma solo in potenza, in qualche modo inespresso. Direi che più che un'attrazione sessuale, ci sia una Sovrapposizione di immagine, che presto diventa Sovrapposizione mentale. In questo senso, il fotogramma che si trova qui sopra parla più o meno eloquentemente, e andrebbe rivisto più volte, anche per il luogo (una camera da letto) in cui si svolge. I primi piani hanno una luce violenta, caraveggesca, che viene quasi sempre da un lato, in modo da lasciare una parte del volto nel nero più enigmatico.
Una delle scelte più grandiose del film sta nella soluzione che Bergman trova per far muovere, vivere, toccare le sue eroine: un posto che ha la consistenza del vapore, una casa discreta, piena di assenze. E' una classica combinazione di due libertà, una specie di ipotesi ceteris paribus, in cui le condizioni non cambiano mai, non interferiscono con la naturale successione degli eventi. E' anche per questo che saggeranno il potere della verità, perché i muti non mentono mai, e le carezze hanno un loro linguaggio, come la mano del bimbo che Elisabeth non vuole stringere, come gli occhi ciechi del signor Vogler, l'abbandono che si porta dentro, la solitudine che gli attraversa la mani, mentre tocca i fianchi di una donna che non è più sua moglie. Ma cos'è che conta di più, amare o essere amati? E' davvero così difficile rassegnarsi all'idea che l'immagine riflessa attraverso lo specchio, quella che mi guarda negli occhi degli altri, che Io espongo al freddo o al calore nel momento in cui scelgo di comunicare, quella stessa immagine è per forza di cose deformata, lasciata alla incauta o accorta interpretazione degli altri? Forse é per questo che i sentimenti più violenti, quelli che si agitano sereni nelle stanze dell'anima ci vengono incontro solo quando incontriamo un essere, una "persona" in grado di attraversare la vernice dello specchio. Non più l'immagine piatta, fredda al tatto e senza temperatura, ma un volto vero, con dei difetti, con un naso, una bocca, un bel paio d'occhi, una buona dose di calore, che ti ricorda che sei vivo, e che per questo, ogni tanto, lacrimi.
Nonostante questa concetrazione da forzati sulle menti delle sue eroine, Bergman trova il tempo per farci vedere la foto di un bimbo coi fucili puntati addosso: è uno scatto nel ghetto di Varsavia, simbolo dell'olocausto. La verità, nel cinema di Bergman, è sempre un fatto complesso.
E se fossero "1"? Intendo dire, il vecchio signor Vogler, passi pure che è cieco, ma come mai non riconosce la voce della moglie? Come mai non si accorge che è una voce diversa che gli sta parlando? E la sovrapposizione dei volti, la confessione sul bambino ripetuta per entrambe le donne potrebbero spiegarsi con l'idea di una persona unica, con un suo lato silenzioso e uno confedenziale?
Non ho le chiavi di questo film coraggioso, addirittura audace. Solo una marea di domande, ma non mi dispiace pensare che in questo film, da qualche giorno, mi ci sono persa.
"Coloro che pensano imparano più durevolmente dalle mancanze".
Michela

2 commenti:

evaluna ha detto...

Eccola là! Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento Bergman, tutti ci passano almeno una volta nella vita.
Che sei brava l'abbiamo capito...Però sei falsamente modesta e questo mi urta. Per tutto il tempo dai l'impressione di aver capito cose che noi poveri scemi non abbiamo compreso e alla fine dici che ti sei "PERSA".
Ma per piacere...

cineastante.it ha detto...

A volte riesci a sottolineare certe cose silenziose e vitali con una grazia e un coraggio che non vedo in nessun altro blog cinefilo.
Sei, senza dubbio, una scatenata osservatrice e la confidenza che hai con la scrittura ti aiuta a renderci gradevoli e "semplici" anche i passaggi più oscuri della poetica bergmaniana.
Uno dei tuoi post migliori, senza dubbio.
I miei complimenti.
Giù il cappello.