mercoledì 5 novembre 2008

DIREZIONI E REAZIONI. Una nota su David Lynch. (Margini di Michela)

Carenza di luce, esposione e rigurgito, altrettante violenze che la pellicola di Lynch rende efficaci come un aborto: la disumanità, che per definizione è contraria all'umanità, è ben vicina all'essere un suo sessuale, solitario attributo. Musiche da baldacchini, pochi fotogrammi e Joseph Merrick diviene specchio, audace e non riflesso, delle nostre abiezioni. L'uomo -dobbiamo ammetterlo!- soffre di una strana seduzione per l'orrore, che è qualcosa di infinatemente vicino e lontano dal rigurgito, a seconda di come si muova e si focalizzi il suo centro. Perpetuamente vicini e lontani lungo il suo circolo, osserviamo lungamente la seduzione del male, l'abietto che ci inverte lo stomaco e che siamo incapaci di non ammirare nella lingua di Nerval, nelle sperimentazioni dotte di Edgar Poe e persino in una pellicola mal riuscita di cadaveri ambulanti. Questa tendenza, questa vertigine verso il piacere che l'uomo da sempre incontra nel male, era ancora più evidente in un'epoca di vaudeville, carrozzoni e miserie assolute. C'erano rovine d'uomo appoggiate a palchi decrepiti, i cui trucchi impossibili, lungi dall'esibire bellezza, la deturpavano: sotto occhi terrificati ed eccitati insieme, decine di storpi, mutilati e poverissimi, esibivano nudi deformità e coraggio, vergogna e fame, quaresima e sabbah, acquasanta e alcool. Simili a prostitute moderne, avevano quasi sempre il verme vestito che opportunamente ne acciuffava spiccioli e godimento. Lynch, qui, è davvero stupendo. So che in molti preferiscono il suo cinema attuale, i suoi sofisticati enigmi, ma c'è qualcosa di veramente irripetibile in questo semplicissimo ordigno, tutto fatto di giustapposizioni audacissime. L'orco di Merrick, per esempio, nel giro di due fotogrammi riesce a chiamarlo "aborto" e "tesoro": è il suo sostentamento, si aggrappa a lui come l'affamato a un pezzo di pane. Dal punto di vista dialettico, la tela si muove in uno squisito bianco e nero, posandosi -come gli artigli di un'aquila- ora sopra una deformità fisica ora sopra un lamento tiepido, quaresimale e dolcissimo, che è la voce otturata dell'uomo elefante. Come Bunuel in "Viridiana" e -più ancora.- come Browning in "Freaks", Lynch capovolge il sistema di brutture, sono gli uomini "sani" gli storpi del film, i borghesi dell'età vittoriana, le oneste puttane dell'età vittoriana, le autorità dai buffi cappelli su strade violente e piene di vapori. I "buoni" del film non hanno niente di gesuitico, non si atteggiano a sapienti, ma sono i soli che -per così dire- sanno guardare "attraverso". Se tutti noi riuscissimo davvero a "guardare attraverso", l'attuale sistema di valori -nella sua nudità- avrebbe molto a che fare con un verme, tutto umido, rossiccio e invertebrato. Gli ictus di questa pellicola sono moltissimi, siccome non ho nè la capacità, nè la "lunghezza" per indicarli tutti, vorrei che leggeste questi due momenti, che sono entrati in silenzio nella mia testa, così che non ho avuto il tempo per dimenticarli. Si tratta di due passaggi tra Joseph e Sir Hopkins: -"Lei può guarirmi?"- adoro questo momento , perchè con questa frase ci è chiaro che questo storpio vuole ancora afferrare il piacere, ne ha il diritto; ci è chiaro che la malattia, il pianto, le botte sulla schiena in nessun modo hanno rovinato la grazia dolcissima di un abbraccio, la sensazione vergine di una donna in abito bianco che ti tratta con gentilezza, la voglia incredibile ed esiziale di "dormire" come tutti gli uomini.
"Il dolore è la sola nobiltà cui mai potranno mordere terra e inferno", scrisse un gigante.
E il letto, nella semplice analogia di dormire/morire, diviene la sua bara. Ora dorme. Prima dell'ultima scena, in un dialogo dalla povertà comovente, Merrick aveva detto al suo dottore: "La mia vita è bella, perchè so di essere amato".
Ora, io so che molti preferirebbero una vita comoda, piena di certezze piccolo-borghesi, magari dietro a un bancone o in camice bianco, ma nessuno avrà mai voglia di raccontarla.
Merrick fu battuto, deriso e umiliato, ma nessuno gli tolse mai la sanguigna, violenta, liquorosa scintilla della bellezza. E in questa bellezza/bontà, in questa certezza non estetica dell'etica umana, sta l'intero fascino di una parabola organica, equilibrata e veloce, che solo Lynch poteva tradurre in fotogrammi.
Joseph Merrick, affetto da una terribile fibromatosi che gli deturpò viso e corpo, l'Uomo elefante che faceva rigurgitare le donne, l'uomo dai ricordi tutti materni, che non conobbe mai il sesso, ebbe davvero una bella vita. E chiunque avrebbe voglia di raccontarla.
Michela

2 commenti:

Anonimo ha detto...

...Se penso che un minimo di merito, nella profondità della tua analisi Lynchiana, devo averlo anch'io, m'è veramente arduo nascondermi qualcosa di paurosamente assimilabile all'orgoglio (oddio l'ho detto!).
La pellicola in questione è -effettivamente, seppur relativamente- acerba, ed anni luce lontana dal criptico, nerissimo bagliore che circonfonde ogni opera del David più maturo. Ciononostante i contenuti che hai magistralmente enunciato -almeno in nuce- ci sono già tutti.
Per quanto il debito verso Browning -non solo a livello diegetico, quanto prettamente registico- sia più che palese, "The elephant man" è lo stagno torbido in cui ogni anima fa i conti con il lato oscuro del Sè. In cui ogni sensibilità può riconoscere -specchiandovisi- quell'indispensabile, ineluttabile ed intrinseco "fascino del male" troppo spesso soltanto millantato da una certa arte.
Il riflesso senza il quale lo stesso slancio verso l'alt(r)o si svuoterebbe di qualsiasi significato.
Là dove lo spettatore più smaliziato, il cinefilo incallito, sarebbe portato a cogliere le debolezze tecniche per prime, o l'andatura forse un pò naif della narrazione, sta invece la grandezza del messaggio.
L'imponenza inattaccabile di un linguaggio universale -e per definizione semplice- perchè atavico e fortemente connaturato all'esperienza umana stessa.
L'essenza del sublime, insomma, è meglio colta quando lo si fa dal basso.
In tutti i sensi, e qui più che mai.

"Se guardi nell'abisso, l'abisso guarda in te".

Con soddisfazione -e fretta-,

D.M.

P.s.

Voglio sperare davvero che "la pellicola malriuscita di cadaveri ambulanti" da te citata (a sproposito) non sia quella che penso io. X-P
Avresti bestemmiato in chiesa!

Ivan Fedorovic ha detto...

e questa è proprio una "storia vera"...